Sassoli de Bianchi

Sassoli: la crisi. La banda larga. E l’indicibile

La scorsa settimana a Milano c’è stato il Summit di UPA, l’associazione delle aziende a cui fa capo il 90% degli investimenti pubblicitari in Italia. In due giorni, non si è parlato solo di pubblicità, ma anche di economia, sviluppo, etica, mass media, web e web analysis, giovani… ci siamo state e abbiamo preso appunti.
Pubblico, a partire da oggi, una sintesi degli interventi che mi sono sembrati più rilevanti. Questo è il primo. Il link rimanda al testo dell’intero discorso.

Lorenzo Sassoli de Bianchi (presidente UPA): la pubblicità, che – è dimostrato – attiva il 15% del Pil, oggi deve fare i conti con una frammentazione dei media che non ha precedenti e coincide con una frammentazione di tempo sociale fatto di multicanalità, interconnessioni… l’obiettivo delle aziende è chiaro: non disperdere risorse.
Peccato però che un incubo stia travolgendo la classe media, cioè la maggior parte dei consumatori. Il sistema finanziario è governato da appetiti rapaci e una tempesta perfetta disperde pensioni e risparmi. Ma, per uscirne, il rigore non basta. Non possiamo cambiare se facciamo sempre le stesse cose.
Sassoli dice che dobbiamo intercettare segnali deboli come fanno i cinesi e ritrovare entusiasmo: riflettere, riorganizzare, rilanciare. Trasferire gli incentivi ora dispersi in comparti non strategici a imprese d’avanguardia guidate da giovani, come la ST di Agrate Brianza, che coi suoi sensori sta conquistando il mondo.
La crescita è azione immediata e creativa. Gli investitori pubblicitari stanno imparando a “fare più con meno”, e a raccontare storie capaci di interpretare lo spirito del Paese e di catturare l’attenzione nel labirinto multimediale: dai media classici al web, alle applicazioni. Quando questa rivoluzione sarà compiuta, il verbo “consumare” verrà sostituito da “condividere” e “partecipare”. Già oggi otto milioni di persone affidano le loro decisioni d’acquisto ai social network.

Fantasia, gioco, intuito, emozione: nel 1972 un film (Mortadella, diretto da Mario Monicelli) e Sofia Loren hanno portato le mortadelle dell’Alcisa nel mercato americano. La serialità è una straordinaria opportunità di racconto: e ci sarebbe molta Italia da raccontare al mondo.
La televisione può restare il perno del sistema mediatico se sa evocare appartenenza e accetta di meticciarsi con il web. La RAI è ancora oggi la maggior industria culturale del paese ed è ricca di talenti, ma va liberata dalla partitocrazia e dalla schiavitù dell’audience. Ci vuole una riforma che le assicuri nuovi meccanismi di governance e autonomia. Deve educare, informare e intrattenere facendo evolvere l’immaginario collettivo.

La rete è un grande medium, ma bisogna imparare a orientarcisi. E a cosa serve la tecnologia in un paese che perde punti di Pil perché non investe nella banda larga? Questa è oscurità tecnologica e oscurantismo politico: ci vogliono gli 800 milioni persi nei ministeri per portare, come minimo, l’ADSL alle 400.000 aziende che non ce l’hanno ancora.
La banda larga, conclude Sassoli, migliora la produttività, e bisogna ricordare che i due terzi della crescita nei paesi industrializzati vengono dall’information technology e dalle telecomunicazioni.

Deve crescere il rispetto per il consumatore, grazie a una comunicazione che integri valori, informazioni ed emozioni mescolati con responsabilità e trasparenza. Le agenzie devono essere partner affidabili con cui condividere scelte strategiche, ma devono a loro volta essere trasparenti sui conti.
Il 2012, per i consumi, è l’anno più difficile dal dopoguerra, e la pubblicità segna un indicibile calo a due cifre. Ma non dobbiamo aver paura. Non siamo il paese della finanza, ma siamo grandi artigiani della moda, del design, e grandi imprenditori come Michele Ferrero. L’Italia deve darsi una nuova Prova d’orchestra, in cui i musicisti non si picchiano, ciascuno suona per gli altri cercando un’armonia in cui le differenze si trasformano in scintille di sfida e la comprensione reciproca accende lampi di verità.

5 risposte

  1. Poco meno di dieci anni fa. Arrivo da un mio cliente per il quale ho sviluppato tutto il design di prodotto, la documentazione e la comunicazione. Ci vediamo per fare il piano per l’anno successivo. “Ciao, scusami solo un attimo, finisco una cosa”. Per qualche minuto continua a digitare sulla tastiera. Al termine si spinge indietro con entrambe le mani contro il bordo della scrivania. “Ecco fatto, adesso potrei andarmene in vacanza per tutto il prossimo anno”. “Hai concluso un contratto importante?”. “Macché, ho concluso una bella transazione on-line in borsa, cosa credi, che i soldi li faccia con la baracca qui sotto?”. Il piano per l’anno successivo è stato commisurato all’idea di “baracca qui sotto”, quella stessa baracca che aveva raddoppiato il fatturato ogni anno per gli otto anni precedenti, che gli aveva consentito la barca, anzi il ferro da stiro, la villa in collina e quella in Gallura e tante altre belle cosette. Ma non bastava la redditività dell’impresa, le ragazze costano e le mogli pure e, poi, c’è la borsa che ti arricchisce senza far niente! Risultato: investimenti in ricerca e sviluppo, in design, in comunicazione, il minimo indispensabile. E, alla fine, la cessione ad un gruppo che compera e vende aziende, e le acquista con il surplus di valorizzazione di borsa. Il giorno dell’acquisto, il valore dell’azienda acquirente è aumentato in borsa più del doppio del prezzo pagato. In base a quali ragioni reali, è un mistero. Ovviamente c’è stata una fuga dei più capaci, una drastica riduzione del personale e, poco tempo dopo, il trasferimento dell’azienda in un altra regione. E quaranta famiglie senza lavoro. E la mia compresa, direi. Sassoli sostiene che non siamo il paese della finanza. È ciò che credo anch’io. Ma gli imprenditori? Il mio cliente, col quale ho un rapporto amichevole, confidenziale, poiché un po’ di stima c’è l’ha, non mi ha mai detto delle volte che gli è andata male, che si è giocata la barca e qualcos’altro, anche perché il tanto denaro che ha preso con la vendita è fatto di soldi veri, investiti in immobili. E dare lavoro per tre o quattro mesi ai muratori rumeni (senza nessun pregiudizio razzista, è una constatazione) invece che agli ingegneri, agli elettronici, ai softwaristi, è preferibile se ciò che invecchia e non produce nulla, invece che perderne, acquista valore. I nostri interlocutori, i nostri clienti e nostri datori di lavoro, sono gli industriali. Ma se molti di loro non credono più al lavoro, al prodotto, alla ricerca, all’impegno quotidiano e pensano di “giocare” in borsa, sarà sempre più difficile uscirne fuori.

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