Trieste barcolana leggi razziali

Trieste. Ecco due errori di comunicazione che insegnano molto

A Trieste si sono di recente verificati un paio di episodi che riguardano la comunicazione. Meritano di essere analizzati perché possono insegnarci qualcosa di importante, se li esaminiamo con calma.
Per questo cercherò di discuterne in modo semplice. E misurando le parole.

Il primo episodio risale allo scorso agosto.  Riguarda il manifesto commissionato per celebrare i 50 anni della Barcolana, una delle regate veliche più grandi del mondo, orgoglio della città. Lo progetta Marina Abramovic.
Il manifesto è questo. Che cosa ci vedete, voi?

Trieste manifesto Barcolana errore

Il manifesto viene prodotto nella sua versione definitiva nel gennaio 2018.
Gli organizzatori ci vedono l’opera di una grande artista internazionale che, nel suo stile di performer, pone sé stessa come preziosa testimone.
Abramovic mostra una bandiera (bianca: simbolo di neutralità) con una dichiarazione nobile e di respiro universale: come esseri umani e abitanti dello stesso pianeta condividiamo tutti una condizione e un destino.

Il manifesto viene presentato al pubblico nel luglio 2018.
Gli amministratori cittadini ci vedono una tizia dalla faccia severa, vestita come un soldato nordcoreano, che agita una bandiera in stile realismo socialista. E sulla bandiera (bianca: simbolo di resa) si parla di stare in una barca. Eh, non può che alludere ai barconi dei migranti.
La ritengono un’opera orribile. Dicono che è inaccettabile, di pessimo gusto, immorale che si faccia propaganda politica con una manifestazione, la Barcolana, che appartiene a tutta la città.

Che cosa è successo?
A luglio 2018 siamo da mesi in piena polemica sui migranti. E scatta un riflesso automatico: un modo di dire figurato (una metafora) viene interpretato in senso letterale. La pressione sui barconi è così forte che arriva a indirizzare la percezione. Come in un riflesso pavloviano.
È l’effetto della euristica della disponibilità, una scorciatoia mentale che distorce i nostri giudizi alla luce delle informazioni più recenti ed emotivamente cariche di cui disponiamo.

Eppure tutti noi usiamo metafore, e se qualcuno ci dice “sono a terra” non ci aspettiamo certo di vederlo sdraiato sul pavimento.
Eppure la metafora dell’essere sulla stessa barca fa parte da sempre del linguaggio comune, tanto da essere registrata nei dizionari. È diffusa anche in inglese e in francese. In Francia c’è da anni un festival ecologista che si chiama Tous dans l’même bateau.
Eppure Abramovic è un’artista molto famosa. E le opere d’arte non sono mai letterali.
Ma non c’è verso.

Risultato: i social media si scatenano. Gli amministratori minacciano di non finanziare più la manifestazione. Vengono accusati (qui Vittorio Sgarbi) di non capire un piffero e voler censurare l’arte, nonché (sempre Sgarbi) i valori umani e cristiani. Alla fine, si decide che il manifesto verrà usato in sede nazionale e internazionale, ma non a Trieste.

E alla fine ci perdono tutti. Ci perdono gli amministratori, che polemizzando hanno centuplicato la visibilità del manifesto, ottenendo un risultato contrario alle loro intenzioni. Ci perdono gli organizzatori, che volevano offrire alla Barcolana e alla città una celebrazione artistica di grande pregio, e si sono trovati a gestire una patata bollente (ehi, non nel senso del tubero. Anche questa è una metafora).

Ma soprattutto ci perde la città di Trieste, perché la polemica sul manifesto finisce per oscurare il fatto importante: il cinquantenario della Barcolana. E per deformare la percezione collettiva della città.

Il secondo episodio è di pochissimi giorni fa.
Sembra analogo al precedente, ma ha alcuni tratti di differenza. Ed è più grave.

I ragazzi del locale Liceo Petrarca, insieme al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Trieste, al Museo della Comunità ebraica e all’ Archivio di Stato di Trieste, hanno organizzato una mostra sulle leggi razziali. Sono passati ottant’anni da quando Mussolini le ha promulgate, proprio a Trieste, parlando dal balcone del Comune.
La mostra è intitolata Razzismo in cattedra.Il Comune, con regolare delibera, ha ceduto una sala per ospitarla. Ecco la locandina. Che cosa ci vedete?

Trieste manifesto leggi razziali errore

Qui non c’è interpretazione artistica, ma ci sono due documenti della realtà storica e territoriale. Una foto d’epoca con tre ragazze sorridenti, in una strada probabilmente riconoscibile per un triestino. La prima pagina del quotidiano cittadino che, nel settembre 1938, annuncia l’eliminazione dalla scuola fascista di insegnanti e alunni ebrei.Il terzo elemento è un titolo, neutro nella sua pura descrittività.

Nessuna possibilità di fraintendere il messaggio. E dev’essere proprio questa chiarezza cristallina a far dire al pubblico amministratore Quando ho visto quel titolo del Piccolo dell’epoca, così estremamente pesante, e con quella scritta lì sotto sul razzismo mi è sembrato esagerato. Dico io, dobbiamo ancora sollevare quelle cose?

Risultato: Enrico Mentana commenta sì, sindaco, oggi più che mai, e quelle sue parole feriscono. Non solo, ma non smetto di guardare quel manifesto, e non capisco con che cuore, con che animo e con che raziocinio lei lo abbia potuto definire “esagerato”. È storia, purtroppo. La nostra.

Così, la vicenda della semplice locandina della piccola mostra organizzata da una scuola diventa un caso nazionale. Viene ripresa da Ansa e dai maggiori quotidiani. Finisce sul Tg de la7. E suscita un vespaio in rete. Ancora mentre scrivo, la mostra risulta sospesa, mentre gli amministratori continuano a polemizzare con la dirigente scolastica.

E alla fine ci perdono tutti. Ci perdono i ragazzi, che hanno lavorato duramente e con passione, studiando, ricercando, adoperandosi per tutelare la memoria. Ci perde la scuola, come istituzione volta a incoraggiare lo studio, l’analisi, la comprensione, il pensiero critico, il lavoro di gruppo, l’onestà intellettuale, il rispetto.

Ci perdono, nuovamente, gli amministratori, che si sono collocati da soli in una posizione indifendibile, affrontando con rudezza un tema sensibile. Tutto ciò nella città della Risiera di San Sabba, l’unico lager nazista in Italia.

Ma soprattutto, e nuovamente, ci perde la bellissima, affascinante, cosmopolita città di Trieste, ricca di storia e cultura, sesta città italiana per qualità della vita secondo il Sole24Ore: tutti dati di fatto contraddetti e oscurati, nella percezione comune, da notizie come queste. E non dimentichiamo che l’euristica della disponibilità funziona sempre,  e anche questa volta.

12 risposte

  1. Vedo tutta l’ilLOGICA dell’arcano in due soggetti che non dovrebbero mettere becco in questi argomenti:

    “Gli amministratori cittadini”
    “I social media”

  2. L’ignoranza della ragione continua a generale mostri. Il male peggiore di questa bruttissima Italia è l’incompetenza che si maschera di violenza e di rancore per non dover ammettere se stessa. Non sono errori di comunicazione. Sotto c’è un malessere molto più grave di cui sinceramente ho insieme vergogna e paura.

  3. Mi pare ci siano differenze sostanziali fra i due manifesti.
    Il primo è il risultato di un incarico dato da un ente pubblico ad una artista.
    Perché il manifesto viene commissionato a una persona che non si occupa professionalmente di comunicazione? Conosco il sindaco di un grande comune che, alcuni anni fa, diede l’incarico di realizzare l’illuminazione delle chiese e dei campanili del centro storico ad un suo amico, artista noto per aver sperimentato con la luce (e che “tengo famiglia”). Il dispendioso risultato è stato la cosa più simile alle zucche di Halloween che si sia mai vista. Da tempo si accendono quelle luci solo nelle notti di nebbia fitta. Ma il prestigio dell’artista in quanto tale era servito a dare risalto alla cultura, al gusto e all’intelligenza dell’incaricante. Insomma, luce riflessa. È probabile che lo stesso meccanismo sia stato alla base della scelta triestina. Che, una volta fatta, non può che essere accettata a scatola chiusa, senza discussioni. Cosa ci vedo? Nulla di quanto ci hanno visto quelli che lo hanno criticato. Forse una scarsa leggibilità e poca attinenza con la manifestazione velica, poco più di un promemoria. Una messa in scena dell’artista che, in quanto tale, non può che mostrare la “sua” arte. Cos’altro si aspettavano?
    Il secondo è banale negazionismo. L’insegnamento della Storia nelle superiori si ferma, se va bene, al Risorgimento. Fascismo e Resistenza sono la stessa cosa, e, comunque, meglio non parlarne. È, quindi, da considerare molto pregevole il lavoro fatto dagli studenti e dagli insegnanti, anche in termini di comunicazione grafica. La censura becera (di)mostra sé stessa in una performance degna del ventennio, dal quale non siamo molto distanti.

  4. Chiamarli errori di comunicazione contiene una gravissima omissione: il credo egemone di questi tempi ci chiede surrettiziamente di autocensurarci, di oscurare i nostri valori più profondi perché poco vendibili, perché “non è il caso”, perché la comunicazione deve imparare ad ammiccare e a far scontente meno persone possibile, deve cioè essere conformista. Peccato che siamo davanti a una crisi talmente grave che ogni segnale che riesca a far risaltare questo degrado dovrebbe essere preso, da chi è cosciente di ciò che sta accadendo, come un’opportunità di risveglio. Lei invece mi pare faccia della comunicazione l’unico idolo, lo scopo anziché il mezzo e critica questi “campanelli d’allarme” imputandoli a errori di comunicazione. E’ la teoria della gradualità: ci stano bollendo pian piano e non ce ne accorgiamo, anche chi è convinto di saperla più lunga degli altri…

    1. Gentile Silvia,
      a volte la comunicazione è rivelatrice.
      In questi due casi, l’”errore di comunicazione” rivela l’esistenza di meccanismi più profondi, fondati, per esempio, sulla distorsione, l’omissione e la rimozione.
      Ed è di questi meccanismi che, a mio avviso, dobbiamo diventare consapevoli. Perché solo se ne siamo consapevoli potremo contrastarli con efficacia.

  5. A me sembra che solo nel primo caso si possa parlare di errore di comunicazione.
    La reazione dell’amministratore alla mostra sulle leggi razziali (“Dico io, dobbiamo ancora sollevare quelle cose?”), farebbe pensare a una disapprovazione dell’iniziativa in sé, che sarebbe stata tale indipendentemente dal tipo di comunicazione adottata.
    Nel primo caso invece l’errore di comunicazione c’è, eccome, proprio a causa di quella scorciatoia mentale di cui parla Annamaria, scorciatoia che il comunicatore deve prevedere e aggirare.
    Quando ho letto la frase del primo manifesto, la mia personale reazione è stata: no, non è la stessa cosa essere su una barca da regata o su un barcone alla deriva.

  6. Beh, però a una grande artista si può chiedere un po’ di originalità e qualche idea nuova?
    Bandiera bianca e “siamo tutti sulla stessa barca” è di una tristissima banalità.

  7. Da triestino vorrei fare le mie considerazioni in merito alle due questioni.
    Il manifesto della Barcolana può considerarsi una specie di calendario Pirelli dell’evento, commissionato dalla società che promuove la manifestazione e trattato come oggetto di culto. Ora, io ci vedo solo ed esclusivamente la traduzione letterale della nostra frase tipica dialettale, “semo tuti sulla stessa barca”, che, come abitanti di una città di mare, non può dar adito a nessun significato controverso, almeno a mio modo di vedere.
    Per la seconda questione il comune ha fatto veramente una pessima figura, “negando”, e non l’ho messo tra virgolette a caso, un fatto accaduto realmente sia qui che in tutta Italia, e di fatto relegato a circostanza casuale nell’arco temporale intercorso da un periodo ad un altro.
    E questo è stato percepito come gravissimo da noi triestini per le ovvie ragioni da tutti conosciute, primo perchè effettivamente le leggi razziali sono state promulgate proprio a Trieste e secondo perchè a Trieste c’è stato l’unico campo di concentramento nazista con forno crematorio funzionante.

  8. Gentile dottoressa,
    questo post mi pare proprio concepito male.
    Lei cita due fatti che hanno suscitato due polemiche incresciose, ma ne propone un commento sbagliato.

    Sul secondo non occorre soffermarsi a lungo perchè il suo errore è marchiano.
    Non è accaduto nessun errore di comunicazione: il manifesto degli studenti andava benissimo e dimostrava coraggio e intelligenza, sia da parte loro, sia da parte dei loro docenti. Un’amministrazione confusa tra un neofascismo negazionista e una sorta di neutralismo buonista che porta a cercare la soluzione che non urta le sensibilità di nessuno è l’unico soggetto che, in questa vicenda “ci perde qualcosa”.
    Invece di distribuire equamente le bocciature (arriva a dire che ci perde anche la Scuola, quando invece qui fa davvero una bella figura: è ancora un luogo in cui ci si prende cura della verità storica e dello spirito critco), lei dovrebbe usare il suo ruolo di intellettuale per sostenere la causa della mostra e spiegare perchè va aperta, oppure inventarsi qualche altra soluzione per favorire tale iniziativa.
    Qui non siamo di fronte a un errore di comunicazione, ma a un sopruso dettato da idiozia e ideologia neofascista. Questo bisognava dire, altro che “ci perdono tutti”.

    Sul primo esempio, il suo commento è ancora peggiore, ma l’errore meno evidente.
    Lei dice: la grande artista aveva fatto un manifesto neutrale e che invocava i valori universali dell’umanismo e invece gli amministratori ignoranti e condizionati dalla polemica del momento, ci hanno visto una presa di posizione.
    Ma lei davevro crede che Marina Abramovic sia una sprovveduta che si mette a invocare astratti valori universali nel più ridicolo oblio della situazione reale in cui si trova l’Europa? Ebbene, glielo dico io: non è così! la Abramovic sa quello che sta succedendo (e non solo dal luglio 2018) nel Mediterraneo e ha preso posizione. E questa non è “propaganda”, come dice il tal amministratore, facendo, lui sì, propaganda. Quella della Abramovic è arte: fa vedere la realtà. E la realtà non è che su questo “pianeta condividiamo tutti una condizione e un destino”, un luogo comune da cioccolatini, bensì che su quei barconi, insieme a quei disperati in cera di una possibilità, ci siamo anche noi. Il loro destino ci riguarda (anche storicamente: pensiamo al colonialismo) e la politica antiumanitaria che si sta facendo in Italia è qualcosa di cui i posteri, se non Dio, ci chiederanno ragione.
    Certo che la Abramovic sta anche facendo il manifesto per la regata triestina, ma coglie l’occasione per parlare di qualcosa di un po’ più importante. O meglio, coglie l’occasione per proporre una lettura più profonda di quella regata: invece che come una festa di paese il cui motto è “semo tutti sulla stessa barca” (come dice il signore che ha scritto il commento qui sopra), ci fa riflettere su quello che succede qualche centinaia di Km più a sud.

    Cara dottoressa e cari amici che avete commentato, è l’ora che i valori universali siano richiamati per far capire che non tutte le posizioni sono “faziose”.
    Gli amministratori, probabilmete per istinto, hanno capito che la Abramovic non stava dicendo la banalità che le viene attribuita in questo post, ma stava prendendo posizione. Si tratta di difenderla in questa presa di posizione e di sostenerla.

    Cordialmente

    Riccardo Fanciullacci

    1. La sua affermazione “la realtà non è che su questo pianeta condividiamo tutti una condizione e un destino, un luogo comune da cioccolatini” significa che, a differenza di quanto scritto sul manifesto, non è vero che siamo tutti sulla stessa barca.
      Non capisco pertanto come lei possa affermare anche l’esatto contrario e cioè che “su quei barconi ci siamo anche noi…ecc”

      1. Gentile Riccardo,
        a lei pare che due mie affermazioni si contraddicano. Per dissolvere questa falsa parvenza, mi basta chiarire la prima farse, che lei legge come se non contenesse una citazione (segnaata dalle virgolette). In quella riga, sto dicendo questo:
        la frase di A. Testa secondo cui “come esseri umani e abitanti dello stesso pianeta condividiamo tutti una condizione e un destino” non è nè una buona esplicitazione del senso del manifesto di Marina Abramovic, nè tantomeno una buona rappresentazione della realtà. Non è una buona rappresentazione della realtà (e per questo anche una cattiva lettura dell’opera di Abramovic) perchè è troppo semplice e banale.
        Annamaria Testa ci dice che la barca cui si riferisce la Abramovic è una metafora. Una metafora della universale condizione umana e NON dei barconi a cui Salvini & Co chiudono i porti.
        Io rispondo che quella barca è innanzitutto proprio una metafora dei barconi E SOLO PER QUESTO TRAMITE diventa messaggio universale.
        Le riformulo il punto con una frase più bella di quella scelta dalla Abramovic e cioè con la frase evangelica: “ama il prossimo tuo”. Ebbene, in questo momento il primo prossimo è quello che muore in mare: la prova passa lì.
        Immagini un cattolico che, facendo leva sulla sua fede e dunque anche su quella frase, si opponesse alle direttive sui migranti dell’attuale governo. E ora immagini qualcuno che ribattesse: “eh no, quella frase dice che siamo tutti fratelli, non pala specificatamente dei migranti!”. Ecco, in questo caso io ribatterei che per non fare di quella frase una frase da cioccolatini, ora bisogna sapervi leggere innanzitutto un riferimento ai migranti, perchè sono loro quelli che per primi vengono esclusi dalla cerchia fraterna.

        Saluti

        RF

    2. tutta la faccenda si potrebbe affrontare da un punto di vista più realistico. la Abramovic è una maestra di marketing. quando lei ha concepito l’immagine del manifesto tutte le polemiche sui barconi ed i migranti erano ancora lontane. c’era ancora il governo Gentiloni. la Abramovic non fa errori di marketing: comunica efficacemente il proprio brand. semplicemente. tutto il resto le interessa, magari, ma in seconda battuta. in questo modo è stata bravissima a passare di barca in barca, fin sulla lussuosa barca delle élites. che non è “la stessa barca”, perché non siamo tutti sulla “stessa barca”. nella fattispecie un effimero evento di interesse locale, le è servito per ottenere una visibilità nazionale ed oltre. questa volta, però, gli eventi e la ottusità degli amministratori, le hanno dato una mano, lasciandole le sue libere per fregarsele compiaciuta. chapeau.

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