tasto like crea dipendenza?

Il tasto like sta davvero sequestrando le nostre menti?

Sarà davvero tutta colpa del tasto like? Le nostre menti possono essere sequestrate, dicono i tecnologi che temono una distopia da telefoni cellulari, recita il titolo del Guardian.
È un’affermazione piuttosto forte. Ed è un’affermazione a effetto. Decido di prenderla con le pinze per due motivi: il primo è che l’articolo parla di internet e di social media (il posto d’elezione per le frasi a effetto), e potrebbe, ehm, a sua volta risentire dello stile corrente in rete.
Il secondo motivo è strettamente anagrafico: avendo cominciato a lavorare con la comunicazione nei primi anni Settanta, mi sono trovata in piena bufera da Persuasori occulti.

SUBLIMINALE? MA VA’ LÀ. I persuasori occulti  un libro uscito a fine anni Cinquanta, e rimasto in auge per almeno una ventina d’anni. Per alcuni versi è un testo interessante e anticipatore di meccanismi di profilazione, persuasione e manipolazione che si sarebbero poi affinati in seguito. Ma per molti altri aspetti è controverso e pieno di allarmi infondati: per esempio riguardo a presunti meccanismi di persuasione subliminale. La quale consisterebbe nel trasmettere messaggi velocissimi e “nascosti” all’interno di normali comunicazioni sui mass media.

SCIENTIFICAMENTE PROVATO. Bene: la persuasione subliminale è una bufala. Ed è stato scientificamente provato che non funziona. Il motivo è semplicissimo: un messaggio subliminale è, lo dice il termine stesso, sub-limen, cioè al si sotto della soglia di percezione dei nostri sensi.
Ma un messaggio che non può essere percepito non può, ovviamente, neanche essere recepito. E quindi non solo non ha alcuna forza persuasiva, ma per i destinatari risulta inesistente. Dunque, stiamo tranquilli, e invece di farci delle paranoie sulla persuasione occulta cerchiamo di difenderci dalla persuasione palese, che invece funziona fin troppo bene.

GRATIFICANTE E INSIDIOSA. Il Guardian esattamente di persuasione palese parla. Ma è una persuasione un po’ speciale, insidiosa perché seduttiva, fondata sulla gratificazione, e in apparenza non orientata a venderci qualcosa o a farci votare per qualcuno. La transazione iniqua che saremmo convinti ad accettare riguarda la cessione gratuita, da parte nostra, di un bene assai prezioso: la nostra attenzione.

TASTO LIKE E TRUCCHI PSICOLOGICI. Il tasto like è stato introdotto su Facebook nel 2007, con l’obiettivo di “disseminare attorno piccoli frammenti di positività”: le persone hanno presto imparato ad apprezzarlo e a usarlo, e questo ha anche permesso a Facebook di raccogliere molte informazioni sulle loro preferenze individuali. Dopo poco tempo, tasti analoghi sono apparsi su Twitter, Instagram e molte altre piattaforme. Un successone, no?
Il tasto like è solo uno dei molti piccoli trucchi psicologici che ci rendono lo stare in rete così urgente (ehi!, hai ricevuto un messaggio! Guardalo subito!) e gratificante (ehi,c’è una nuova persona che vuole entrare in contatto con te! Ehi, puoi guadagnarti un nuovo distintivo! Ehi, guarda anche il prossimo video!).

DIPENDENZA DA TASTO LIKE. È proprio Justin Rosenstein, l’ingegnere che ha inventato per Facebook il tasto like, ad affermare che ricevere like è una gratificazione che può creare dipendenza. In realtà, sembra proprio che abbia effetti misurabili su cervello in termini di rilascio di dopamina (l’ormone connesso con il senso di piacere che deriva dal sesso, dal buon cibo, dalla musica o dall’assunzione di droghe).

MEDIE IMPRESSIONANTI. Bene. Una ricerca condotta dalla piattaforma dscout su un campione di utenti di telefonini americani rileva una media di 76 accessi al giorno. Gli utilizzatori più intensivi arrivano ad accedere al telefonino 132 volte al giorno.
Ma ad essere impressionante è la media delle interazioni con l’apparecchio (toccare, scorrere e così via. E ovviamente premere il tasto like): sono 2617 gesti al giorno, ciascuno dei quali chiede che l’attenzione sia rivolta allo schermo. Dai, sarà per via della dopamina. E se proprio non vogliamo usare il termine “dipendenza”, certo si può parlare di utilizzo compulsivo del cellulare.

tasto like crea dipendenza?

CONFERME EMPIRICHE. Se cerchiamo una conferma empirica del dato, ci basta fare un giro sulla metropolitana milanese: tutti col naso sullo schermo, comprese le persone davanti all’uscita. Che inciampano tenendo il naso sullo schermo. Salgono le scale tenendo il naso sullo schermo. Si avviano verso la prossima puntata delle loro vite col naso incollato allo schermo. E forse, invece che guardarsi allo specchio la mattina, si fanno un selfie: chissà, magari qualcuno premerà il tasto like.

È TUTTA PUBBLICITÀ. Ovviamente, non veniamo persuasi a stare in rete perché siamo belli e bravi, ma perché il nostro sguardo viene venduto agli inserzionisti pubblicitari. E di questo dobbiamo ricordarci. Il meccanismo, in realtà, non è così diverso da quello delle televisioni commerciali (lo zuccherino di programmi attraenti e gratuiti in cambio del tempo passato a guardare la pubblicità), ma in rete è più sottile e insidioso perché è personalizzato. E perché è pervasivo: uno in metropolitana non si porta certo il televisore, ma il telefonino, sì.

TROVARE UN LIMITE? Rosenstein oggi autolimita il proprio accesso al cellulare. Molti altri giovani tecnologi della Silicon Valley stanno facendo altrettanto. Sono gli stessi che mandano i propri figli in costose scuole steineriane, dove i bimbi fanno giochi tradizionali, e non c’è l’ombra di un cellulare. Ma la cosa più paradossale è questa: per contrastare le gratificazioni da rete, oggi c’è un’app che ti premia tanto più quanto più resti disconnesso.

QUANTO PREOCCUPARSI? Dobbiamo proprio preoccuparci? Lo scrivevo qualche riga fa: per motivi anagrafici, tendo a non agitarmi troppo. E, d’altra parte, anche questo articolo appare in rete, quindi sarebbe curioso se si concludesse con un veemente appello a staccarsi subito dallo schermo.
Infine: è comunque un fatto positivo che appaiano articoli come quello del Guardian, e che più in generale l’attenzione critica ai meccanismi della rete sia molto cresciuta da un anno a questa parte.

ATTENZIONE ALL’ATTENZIONE. Però. Però è vero che gli schermi, e soprattutto i piccoli schermi dei cellulari, ci chiedono un’attenzione tanto reiterata quanto superficiale. Che ci orientano verso contenuti semplificati, frammentati e sensazionalistici, e poco importa che siano veri o falsi. Che ci accompagnano sempre, e rischiano di distoglierci dal mondo reale.
Forse, per cominciare, potremmo imparare a stare più attenti a dove investiamo la nostra attenzione: il fatto che abbia un valore per gli inserzionisti pubblicitari dovrebbe convincerci che ha un valore anche per noi, e per le nostre vite.

6 risposte

  1. Innanzitutto grazie per aver condiviso con noi i tuoi pensieri sull’argomento. Trovo la dipendenza dai likes simile alla dipendenza dai tokens acquisiti dai bambini nei videogiochi (rewards /feedback immediato continuo) e questa e’ una cosa nuova che mi spaventa. La cosa che mi sconcerta di piu’ e’ scoprire che anche a scuola qui in US usano proprio questo metodo di gratificazione (apps con tokens continui) per far apprendere i bambini. Noi adulti, o forse dovrei dire alcuni di noi, possono abituarsi all’autocontrollo e a fare a meno dei tokens, i giovani e soprattutto i bambini molto meno. Non c’e’ quindi da stupirsi se un bambino americano non vuole imparare qualcosa senza tokens, gettoni o punti da guadagnare subito!
    E comunque, dopo tanti anni vissuti fuori dall’Italia, sono rimasta colpita dal potere persuasivo che ha avuto la televisione italiana sulla mentalita’ degli italiani. Le veline per gli italiani sono ormai una cosa di cui parlare senza vergogna, cosa che non succede in Inghilterra ed in US. E qui in US ho visto i social media rafforzare la rivalita’ tra due gruppi di americani: quelli delle citta’ e quelli della campagna (i Trump supporters), entrambi non consapevoli del ruolo che hanno avuto i social media in questo e nell’elezione stessa di Trump. Insomma anche se si tratta di una persuasione palese, molti utenti di questi media non ne sono consapevoli (ad esempio, molti spazi pubblicitari sono stati acquistati dai russi prima dell’elezione di Trump) e si stupiscono poi delle conseguenze.

  2. Ah, Vance Packard, quanti ricordi!

    Vorrei però sollevare una questione: chiaro che la comunicazione ‘subliminale’ di cui parlava Packard è stata smentita, ma oltre alla propaganda minacciosa e falsa forse ha solo preso un’altra forma.
    Nella nostra epoca in cui è difficile trovare una verità condivisa, forse una azienda che utilizzi il “nudging” per spingere le persone a fumare, o a considerare che (per dirla con le parole del protagonista di “thank you for smoking”) “non ci sono prove definitive che fumare sia dannoso”, non è solo un’altra forma di persuasione occulta?

    Teoricamente la vera persuasione occulta non è quella subliminale, ma quella in cui gli assunti di partenza sono dati per scontati – e quindi impliciti, oppure qualsiasi argomentazione che proceda per paradossi non-logici – e quindi non confutabile razionalmente senza un lungo lavoro tecnico.
    Senza contare le immagini, che possono far passare moltissimi significati senza nessun vaglio razionale (forse dovevo citare prima le immagini, e poi i casi più rari).

    Questo per dire che la paranoia di Packard ha attecchito bene, ma forse è ancora più necessaria di quanto il nostro apocalittico preferito avesse immaginato: la nostra realtà è già entrata in pieno territorio 1984 e sta spingendo verso nuove forme di distopia – e nemmeno io mi sto agitando molto, le cose stanno semplicemente così.

    Invece sul meccanismo dei pulsanti like non potrei dire nulla di più: la conclusione dell’articolo è la migliore possibile

    grazie!

  3. A parte gli effetti psicologici del tasto “mi piace” – che porta alla dipendenza/compulsività, ed è un meccanismo eficace per trattenere in rete più a lungo le persone e per orientarle su altre pagine – non so se invece si è rivelato uno strumento così utile per la profilazione dell’utenza e dei suoi gusti da vendere a terze parti che possono poi fare pubblicità mirate.

    Facebook, è soprattutto una rete relazionale, i mi piace mi pare che siano spesi soprattutto come conferma tra amici, più che come espressione di un interese reale verso l’argomento o prodotto contenuto. Insomma, proprio per l’effetto di dipendenza ben descritto, la tendenza è di mettere mi piace a qualcosa, non necessariamente perché è davvero un interesse, ma perché è un favore/riscontro rivolto a un amico. In questo modo, però, la profilazione da parte dei gestori sul contenuto risulta falsata.

    Non ho dati recenti in proposito, ma sicuramente agli albori, da quel che so, le profilazioni di Facebook non davano grossi ritorni dal punto di vista commerciale, al contrario di quelle di Google che sono invece basate principalmente sulle ricerche delle persone profilate. Non so le cose siano cambiate.

    Certamente avere la consapevolezza che un mi piace non è solo rivolto agli amici ma è anche controllato dai gestori, che spiano noi e le nostre reti relazionali, è importante. Un saluto.

  4. @zop: al momento credo che gran parte del potere economico di Facebook si basi sui “mi piace” e sulle profilazioni dettagliate che ne derivano (compreso il rischio echo chamber, per cui una volta che c’è piaciuto qualcosa non potremo mai più provare qualcosa di diverso).

    Google, Facebook e in misura minore anche Amazon sono aziende che si sostengono e prosperano e sono diventate dei colossi solo vendendo profilazioni dei loro utenti. E niente altro.

    Qui un’ottimo articolo del Guardian sull’argomento (utile anche a noi italiani per ricordare cosa significa una politica di sinistra): https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/aug/30/nationalise-google-facebook-amazon-data-monopoly-platform-public-interest

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