Questo articolo parla di economia dell’attenzione. Può sembrare un concetto esoterico, ma vi assicuro che riguarda tutti noi. In realtà, ogni volta che stiamo attenti a qualcosa a cui potremmo serenamente evitare di prestare attenzione stiamo facendo un investimento poco oculato.
PRESTARE ATTENZIONE. Il fatto è che la capacità del nostro cervello di prestare attenzione è grande sì, ma non infinita. Se stiamo attenti a qualcosa possiamo stare meno, o per niente, attenti a tutto il resto. Se riuscissimo ad aumentare, almeno un po’, la quantità di attenzione di cui disponiamo, sarebbe meglio. Ma non c’è una ricetta magica, e nemmeno un singolo metodo che garantisca risultati certi.
BENESSERE GENERALE. Tutti i suggerimenti sembrano riguardare il migliorare lo stato di benessere generale: ridurre lo stress, per esempio. Dormire di più. Organizzare il tempo ed evitare il multitasking. Meditare. Fare un moderato esercizio fisico. Ascoltare musica. E perfino bere del tè nero. Insomma: per quanto ci possiamo sforzare, l’attenzione umana resta una risorsa limitata. E ha, come ogni altra risorsa limitata, un valore. Che è più alto di quanto comunemente si immagina.
ECONOMIA DELL’ATTENZIONE. Il primo a parlare di economia dell’attenzione è il premio Nobel Herbert Simon, che già nel 1971 scrive che la ricchezza di informazione disponibile consuma l’attenzione dei destinatari.
Noi già investiamo (ci tocca farlo) la maggior parte di questa preziosa risorsa nello svolgere compiti quotidiani come studiare, lavorare, gestire, accudire, e metterci in relazione con i nostri cari e con chi ci è vicino.
Sono tutte attività che oggi peraltro ci obbligano a elaborare una quantità di informazione assai superiore che in passato. Pensiamo solo alla crescita esponenziale di email di lavoro. O al turbine di messaggi su Whatsapp a cui è esposta la madre di qualsiasi bambino in età scolare.
ATTI INDISPENSABILI. Dobbiamo anche investire quote della nostra attenzione per compiere mille atti minuti ma indispensabili, e impossibili da eseguire senza starci almeno un po’ attenti. Scendere per le scale. Guidare la macchina. Compilare un modulo.
TEMPO LIBERO E INTERSTIZI. Il residuo di attenzione sulla cui allocazione potremmo davvero decidere è quello che corrisponde o al nostro tempo libero, o agli interstizi di tempo che restano tra un compito e l’altro: per esempio, gli spostamenti in treno o in metropolitana. Le attese davanti a uno sportello o in fila alla cassa del supermercato.
COMPETERE PER L’ATTENZIONE. Fino a una manciata d’anni fa, la competizione per conquistarsi parti del nostro tempo libero e della nostra attenzione coinvolgeva i mass media tradizionali: produttori di contenuti d’informazione o d’intrattenimento, gratuiti (per esempio, le televisioni private) o a pagamento (i quotidiani e i periodici, la tv di stato, il cinema) che seguivano tutti lo stesso modello economico.
L’ECONOMIA DELL’ATTENZIONE, IN UN MODELLO. In estrema sintesi, quel modello funziona così: i media offrono ai loro pubblici contenuti interessanti e in cambio ne ricevono attenzione. Questa viene poi rivenduta, monetizzandola, agli investitori pubblicitari, che faranno di tutto per deviare parti di quell’attenzione sulle proprie proposte commerciali.
CHI CI GUADAGNA? Se le proporzioni tra le diverse componenti sono eque, il modello ha un senso e tutti, in teoria, ci guadagnano qualcosa: gli investitori pubblicitari si portano a casa un po’ di preziosa attenzione, i media si procurano le risorse necessarie per produrre contenuti adatti per i loro pubblici, i pubblici pagano per i contenuti un costo inferiore a quello reale, o addirittura (se la quota di pubblicità è maggiore) nessun costo.
LO SVANTAGGIO DELL’OMOGENEIZZAZIONE. Se c’è uno svantaggio (e c’è) è questo: i contenuti tendono a omogeneizzarsi e a massificarsi perché i media vogliono poter rivendere agli utenti pubblicitari le quantità maggiori possibili di attenzione. E chi produce contenuti di qualità migliore, capaci di catturare quote minori di attenzione, rischia di finire fuori mercato.
L’ECONOMIA DELL’ATTENZIONE, IN RETE. Il modello funziona, con qualche difficoltà in più, anche quando migra in rete. Ma poi succede che i social media lo frantumano. Non producono contenuti, ma solo infrastrutture tecnologiche atte a ospitare contenuti generati da altri, sui quali peraltro esercitano scarso controllo.
Rendono poi disponibili (sempre gratis) quei contenuti agli utenti, ma in cambio monetizzano sia la loro attenzione sia i loro dati, che non sono aggregati, ma personali. E hanno un valore molto maggiore per gli investitori pubblicitari.
QUALITÀ DISCONTINUA. Certo: la qualità dei contenuti è a dir poco discontinua visto che chiunque può generarli. Ma a catturare l’attenzione sono le grafiche accattivanti delle piattaforme e l’accessibilità permanente, la personalizzazione e l’amichevolezza, la semplicità d’uso, le immagini impattanti, il flusso di testi elementari e ad alta intensità emotiva (risse, pettegolezzi, insulti, appelli strappacore, brandelli di vita privata…).
COSTO ZERO. E ancora: il senso di appartenenza e il senso di urgenza e la rassicurazione (bravo, stai facendo la cosa giusta!). Ed il fatto di poter guadagnare punti, stelline, faccine, cuoricini, livelli di merito, e soprattutto “mi piace”… gratificazioni elementari ma efficaci, e a costo zero per la piattaforma.
ATTENZIONE INTERSTIZIALE. È un universo ideale per catturare a lungo l’attenzione di enormi quantità di utenti, e anche per sequestrare l’attenzione interstiziale, difficilissima da intercettare se non grazie a contenuti elementari veicolati da un oggetto maneggevole come un telefonino.
LO SVANTAGGIO DELLA POLARIZZAZIONE. Anche questo sistema presenta degli svantaggi, e ormai li conosciamo: se i media tradizionali tendono a omogeneizzare, i social network, invece, polarizzano. E poi c’è l’opacità riguardante l’uso dei dati degli utenti. La difficoltà di controllare la diffusione di notizie false. Il fatto che non ci sia differenza visibile tra fonti autorevoli e fonti del tutto inaffidabili. Insomma: si tratta di una dieta mediatica sempre disponibile, che può apparire molto appetitosa, ma che è contaminata da autentica spazzatura.
MA CHI CI GUADAGNA, IN QUESTO CASO? Beh, è ovvio: le piattaforme ci guadagnano assai perché riescono a realizzare enormi profitti: impiegano pochissime persone in relazione alle dimensioni che hanno. Finora hanno tratto vantaggio da legislazioni distratte o inadeguate. E si sono adoperate per procurarsi fiscalizzazioni favorevoli.
Gli investitori pubblicitari ci guadagnano perché possono raggiungere i loro pubblici in modo molto più accurato che in passato. Perché, abbiano pochissimo o moltissimo da investire, possono calibrare perfettamente il loro stanziamento, senza barriere all’ingresso. E perché trattano direttamente con le piattaforme, disintermediando l’acquisto.
… E CHI CI PERDE? Di sicuro ci perdono i mass media tradizionali, le cui entrate pubblicitarie si sono ridotte. E ci perdiamo noi, nella misura in cui rinunciamo a selezionare i contenuti e permettiamo che la nostra preziosa attenzione venga sequestrata da roba di scarsa o infima qualità.
IMMERSI NELL’ECONOMIA DELL’ATTENZIONE. È a questo che dovremmo stare attenti, nel momento in cui finalmente – finalmente! – riuscissimo a convincerci e a ricordarci che l’attenzione di cui disponiamo è scarsa e che ha un valore. E, appunto, che nell’economia dell’attenzione siamo immersi: dobbiamo farci i conti, no?
FARSI PAGARE? Un lungo, interessante articolo su Slate arriva alla conclusione che dovremmo farci pagare, per il fatto di prestare ai social media tanta parte del nostro tempo e della nostra attenzione.
INFORMAZIONE CHE HA VALORE. L’altra proposta, che mi sembra più praticabile da subito, è che decidiamo noi stessi di investire la nostra attenzione in modo più lungimirante. Ricordandoci che ce ne resta sempre meno. Concedendola solo dopo esserci sincerati di ricevere, in cambio, informazione che ha un valore per noi, o perché ci fa sentire meglio, o perché ci fa capire meglio, o perché ci rende persone migliori.
Questo articolo è il terzo di una serie. Se l’argomento vi interessa, potreste leggere anche Attenzione: come funziona, perché si modifica, quanto è preziosa, e poi: Sovraccarico cognitivo: ricchi di informazione ma poveri di attenzione
Questo articolo esce anche su internazionale.it. L’immagine è un dettaglio da un lavoro del bravissimo e giovane fotografo Logan Zillmer